IL REGALO INATTESO

Quella mattina di fine gennaio arrivai come di consueto alla stazione dove lavoravo, inserii la chiave nella toppa, sbattei a terra lo scarpone e mi scrollai la neve dalle spalle. Prima di chiudere la porta, scrutai l’orizzonte: era ancora buio ma si intravedeva un piccolo spiraglio di luce. Iniziavo il turno presto e alcune volte mi era capitato di guardare incantato l’alba con i suoi dolci colori e le mille speranze di un nuovo giorno che inizia. Tutto sommato il mio lavoro non era male: vendevo biglietti ferroviari e davo al capotreno il via per ripartire dopo ogni sosta. Zoppicare avanti e indietro non mi era particolarmente duro visto che la maggior parte del tempo stavo seduto, e poi appoggiarmi al bastone mi dava enorme sollievo. Presi posto alla biglietteria e attesi l’arrivo dei primi pendolari.

Le luci del mattino cominciavano a filtrare dalla grande porta che dava sui binari, illuminando le panchine di ferro poste ai due lati dell’ingresso. Tenevo ancora i guanti, di solito li toglievo solo per staccare i biglietti e poi li rimettevo; sembrava impossibile ma, dopo tutto quello che avevo patito, soffrivo ancora il freddo. Eh si, avevo patito tanto e il marchio di quel periodo sarebbe rimasto indelebile nella mia mente, nel mio cuore e anche sul mio corpo.

La mattina passò in fretta e, verso l’ora di pranzo sentii aprirsi la porta d’ingresso, udii dei passi avvicinarsi e subito una figura maschile mi si parò davanti. Misi da parte il panino che stavo per addentare e cercai di vedere chi mi stava di fronte ma il riflesso del vetro che ci divideva mi impediva di distinguere i tratti del suo viso. L’uomo mi chiese un biglietto di sola andata e notai che non era uno dei soliti che frequentavano la stazione perché non riconoscevo la voce e, inoltre, la sua cadenza non era veneta, sembrava lombardo. Quando gli passai il resto, questi si sporse in avanti per prendere i soldi e fu in quel momento che incrociai i suoi occhi e rimasi incatenato al suo sguardo. Era di un azzurro intenso, poco comune ma, la cosa che più mi colpì, era che io avevo già visto quegli occhi. Tornai indietro con la memoria a tanti anni prima, a uno sguardo pieno di paura e sofferenza che spiccava dal viso emaciato di un giovane con la barba coperta di ghiaccio e neve.

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Durante la Seconda Guerra Mondiale l’Italia era alleata con la Germania e la situazione volgeva a nostro favore, prevaleva l’ottimismo perché ci avevano convinti che in breve tempo avremmo vinto. Quando ricevetti l’ordine di partire per la Russia non mi preoccupai più di tanto, era estate ed ero convinto che avrei festeggiato il Natale a casa con i miei cari, ma mi sbagliavo: dopo qualche mese passato sul Don, la situazione si fece disperata e ci venne ordinato di ritirarci il più velocemente possibile. La lunga colonna di disperati cominciò un devastante viaggio in mezzo alle nevi e al vento. Il freddo era così intenso che non si poteva restare fermi nemmeno un attimo pena il congelamento immediato; soldati e ufficiali morivano come mosche, si avanzava a testa bassa e si mangiava qualunque cosa fosse a disposizione.

Mentre procedevo seguendo l’infinita colonna umana verso le linee amiche senza esattamente sapere dove fossero, continuavo a chiedermi se sarei tornato a casa. Ad un tratto con la coda dell’occhio vidi qualcosa di nero ai lati della strada, di solito non mi fermavo mai e cercavo di non pensare a nulla tranne me stesso ma, chissà perché, dopo aver fatto qualche passo tornai indietro e mi avvicinai alla sagoma distesa per terra. Accucciandomi venni colpito da uno sguardo azzurrissimo e molto intenso che mi pregava di non abbandonarlo. Istintivamente facendomi leva sulle gambe e aiutandomi con le braccia, lo feci alzare e tenendoci stretti cominciammo ad avanzare lentamente. Lui non parlava, non credo fosse ferito, solo sfinito. Teneva la testa bassa, la schiena curva, le gambe pesanti, non ce la faceva più e io sapevo che con il suo peso da sostenere non sarei durato a lungo. Mentre avanzavamo cercavo con gli occhi una slitta o un mulo dove avrei potuto caricarlo e intanto gli dissi:

“Mi chiamo Antonio Bassi del Trentesimo reggimento bersaglieri, tieni duro amico, vedrai che ce la faremo”.

Lui girò i suoi occhi su di me ma non parlò, era stremato. Finalmente la colonna fece sosta in un piccolo villaggio di isbe, cercai di entrare nelle prime che trovavo ma erano tutte strapiene. Alla fine trovai un piccolo spazio, deposi il ragazzo su un mucchio di paglia, lo coprii con una coperta e poi gli dissi che andavo a prendere delle scatolette di cibo e che sarei tornato in poco tempo. Lui mi fece un cenno di assenso col capo, poi chiuse gli occhi. Io uscii dall’isba, dirigendomi verso il sito che era stato preposto a distribuzione viveri, sentivo sopra alla testa il sibilo dei colpi di mortaio. I russi si avvicinavano e non ci lasciavano in pace nemmeno un momento: convivevamo con la morte. Ad un tratto sentii un colpo seguito da un dolore lancinante alla gamba destra e caddi per terra. Mentre con la mano mi tenevo la parte dolorante, trovai la forza di guardare e vidi che c’era una scheggia conficcata nella zona appena sotto al ginocchio e una macchia di sangue che si allargava a vista d’occhio.

Avevo paura e provavo un dolore indescrivibile ma fortunatamente per me in quel momento passò Miato, il tenente medico del mio reggimento. Mi si avvicinò e come avevo fatto io con il ragazzo dagli occhi azzurri, mi fece alzare e di peso mi trascinò verso una slitta. Ad un tratto ci fu il buio. Mi  risvegliai nel letto dell’infermeria, mi sentivo intontito, dolorante e debole; cercai di alzare la testa ma era troppo pesante. Sentivo l’odore nauseabondo del sangue e dei medicinali che mi circondava, ovunque si sentivano i gemiti e le urla degli altri feriti. Finalmente arrivò Miato che mi comunicò che avevano dovuto amputare dal ginocchio in giù. Chiusi gli occhi, sconfitto, riuscivo solo a pensare che non avevo più la gamba. Come sarei tornato a casa ma, soprattutto, sarei tornato?

Avevo visto troppi feriti lasciati al loro destino perché difficili da trasportare. Per un attimo ripensai al ragazzo dagli occhi azzurri che mi aspettava fiducioso e che non sapeva cosa mi era successo. Dopo qualche giorno in infermeria, venni caricato su una slitta e portato verso la salvezza. Fui fortunato perché venni colpito durante gli ultimi giorni di ritirata, quando ormai stavamo uscendo dalla sacca. Tornato in Italia venni congedato e trovai lavoro alla ferrovia Passarono gli anni durante i quali avevo cercato di non pensare a quello che era successo, per quanto fosse impossibile visto che convivevo con la menomazione ma ora all’improvviso rivedendo quegli occhi, venni catapultato indietro nel tempo. Non avevo mai avuto notizie di quel ragazzo che avevo soccorso, non sapevo neppure il suo nome. Ed eccoci, a distanza di più di vent’anni di nuovo così vicini. Guardandolo bene però mi resi conto che quello che avevo di fronte era  il viso di un giovane, non poteva essere lui. Eppure gli occhi erano gli stessi.

Lo sconosciuto fece per allontanarsi, poi ritornò sui suoi passi e mettendosi le mani in tasca con tono timido e sommesso, chiese: “Antonio Bassi?” al mio cenno d’assenso riprese “Lei non mi conosce ma io invece so chi è. Nel gennaio del 1943 era sul fronte orientale e salvò la vita a un giovane soldato milanese. Quel soldato era mio padre.”

Aprii la bocca per parlare ma non mi venivano le parole. Poi con un filo di voce chiesi dove fosse suo padre.

“Purtroppo è morto qualche mese fa – rispose con gli occhi lucidi e la voce incrinata –  ma mi ha chiesto di trovarLa per darLe questo”, allungò la mano verso di me e mi fece vedere una piccola croce di guerra di metallo. Posai lo sguardo su quel piccolo oggetto carico di significato e poi alzai gli occhi a incrociare i suoi. Presi la croce e feci scorrere le mie dita sopra le striature, pensavo ai miei compagni morti, a quanti erano dispersi e a quei venti lunghi anni che avevo trascorso cercando di andare avanti con la mia vita tra strazianti  ricordi e incubi ricorrenti.

Uscii zoppicando dalla biglietteria e giunto vicino a lui, lo presi per un braccio e gentilmente lo invitai ad accomodarsi sulla panchina. Poi, dopo aver inghiottito il nodo che mi serrava la gola, cominciai a parlare di quei lunghi giorni che mai avrei dimenticato. Lui mi ascoltava rapito, triste ma attento ad ogni parola, come se ogni suono, ogni frase che uscivano dalla mia bocca, fossero per lui di importanza vitale. Terminato il mio racconto, gli misi una mano sulla spalle e dissi “Mi spiace che tuo padre non abbia saputo che non sono tornato da lui solo perché sono stato ferito all’uscita dall’isba” e in quel momento, nel pronunciare quelle parole che pesavano come macigni sul mio cuore, la voce mi s’incrinò. “Lo sapeva – mi rassicurò lui – aveva chiesto di Lei e gli avevano detto dell’amputazione, ha sempre pensato di cercarLa per ringraziarLa di persona ma la vita ha deciso diversamente”.

Mi prese la mano in cui stringevo ancora la croce, sfiorò delicatamente quel piccolo oggetto metallico che era appartenuto a suo padre e poi dopo un’ultima stretta si alzò per congedarsi.

“Posso offrirti un caffè? Come ti chiami?”

gli chiesi con l’intenzione di allungare quel momento così intimo – “Mi chiamo Antonio, si proprio come Lei e in suo onore. Grazie per l’offerta ma devo andare.”

Mi si avvicinò e mi strinse forte a sé, dopodiché si girò e uscì nel freddo pomeriggio.

Quando la porta si chiuse alle sue spalle, guardai la croce che ancora tenevo in mano e pensai che era tutto vero e allora finalmente lasciai scorrere le lacrime che avevo trattenuto per  tanto tempo e piansi, piansi per me, per la gamba che avevo perso, per le atrocità che avevo visto e vissuto ma soprattutto, per tutti gli amici e i compagni che ormai non c’erano più.

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