In onore del prozio Bruno e di tutti i nostri soldati dispersi in Russia….
“Era un tiepido mattino di gennaio quando tornando a casa trovai mamma seduta in cucina. La stanza era in penombra, la pentola sul fuoco, il cane accucciato sotto il tavolo. Tutto sembrava nella normalità. Senza parlare, mamma mi allungò un foglietto, lo presi in mano e il cuore mancò un battito: era la cartolina di precetto con l’ordine di presentarmi in caserma a Padova il giorno seguente.
Qualche minuto dopo mio padre tornò dai campi e trovò la stanza in penombra, la pentola sul fuoco, il cane accucciato sotto il tavolo e noi due seduti attorno al tavolo della cucina con lo sguardo perso nel vuoto. Senza dire niente gli porsi il foglietto che ancora stringevo in mano, lui scorse quelle poche parole stampate, dopodiché senza dire niente indossò il cappello che aveva appena appoggiato sulla credenza, si girò e uscì.
Nessuno mangiò quel giorno. Avevo già fatto il servizio di leva ottenendo il congedo illimitato, poi mi avevano richiamato l’anno dopo e mandato in Albania dove ero stato anche prigioniero per un paio di mesi. Alla fine fortunatamente mi avevano liberato. Ormai ero a casa da più di un mese e anche se ovviamente sapevo della guerra in corso, pensavo che non toccasse a me anche questa volta, avevo già fatto il mio dovere per la Patria, ora volevo solo trovare un lavoro, sposare la mia Rosina e metter su famiglia.
Il giorno dopo mio padre mi portò con la sua bicicletta in caserma a Padova dove erano in corso i preparativi per la partenza. Dopo una stretta di mano “da uomini”, mi avviai con il mio borsone in spalla verso il grande edificio e oltrepassai i cancelli. Ero preoccupato per quello che mi aspettava e, diciamolo pure, anche arrabbiato per questa guerra che non volevo, non mi riguardava ma dovevo combattere. Per cosa poi? Per chi? Ma soprattutto, sarei tornato?
Non potevo sapere che ero solo una delle migliaia di pedine che servivano al Duce “da gettare sul tavolo delle trattative” per poter partecipare, a fianco di Hitler, in quella che si pensava sarebbe stata una “guerra lampo”.
Dopo la fase di addestramento militare, nel luglio dello stesso anno partimmo per il fronte orientale. Conoscevo molti dei miei commilitoni, eravamo tutti più o meno coetanei, ognuno con la sua storia, ognuno con una famiglia alle spalle e tutti spinti giocoforza verso un unico viaggio. Il morale della truppa era alto, pur nella nostalgia di casa e dei nostri cari, cercavamo di non pensare a cosa ci aspettava ma a guardare con ottimismo a quella che chiamavamo “la nostra avventura”.
Dalla caserma di Padova si raggiunse la stazione di Verona in camion e quindi con la tradotta si proseguì in ferrovia, attraverso l’Austria, fino in Ungheria. Durante gli spostamenti c’era chi guardava la foto della ragazza, chi dormicchiava, chi parlava della propria vita o raccontava le informazioni che aveva appreso qua e là sull’andamento della guerra. Il cibo, anche se non di ottima qualità, arrivava regolare. Eravamo tranquilli, non sereni, ma nemmeno angosciati.
Il viaggio era infinito, per fortuna non eravamo a piedi ma la pianura sembrava non finire mai, ovunque si guardasse c’erano solo terra e campi coltivati. A volte accarezzavo la placchetta di metallo con i miei dati che portavo al collo e pensavo alla mia famiglia e alla mia morosa lontana e mi prendeva un nodo alla gola.
Nei primi giorni di agosto, durante la marcia di avvicinamento al fronte, cominciò a piovere. Le strade strette e di terra battuta in pochi istanti divennero inagibili impedendo ai nostri mezzi di procedere agevolmente.
Tra i fiumi Dniester e Bug avvenne il nostro “battesimo del fuoco”. La maggior parte di noi aveva già assistito a dei combattimenti e aveva già visto dei compagni morire sotto i colpi nemici ma, l’atrocità della guerra non si supera mai. Vivere nel terrore costante che sia il nostro ultimo minuto, aver paura di una pallottola o di una scheggia impazzita è psicologicamente devastante. Hai il bisogno umano di cercare un contatto o una parola con qualcuno, ma allo stesso tempo hai paura di affezionarti alle persone perché sai che, molto probabilmente, domani tu o lui o entrambi non vedrete sorgere il sole. Dovemmo sopportare un’offensiva russa, i colpi di mitragliatrice ci sfioravano, non c’erano posti dove nascondersi tranne alcuni covoni di grano lasciati marcire al sole. Non c’era il tempo di pensare, si doveva agire, correre, sparare contro il nemico senza aver la capacità di prendere la mira perché se ti fermavi, eri morto. I minuti correvano inesorabili così come il sudore che colava dalla fronte. Le nostre divise estive erano un forte richiamo ai cecchini avversari, sembravamo tanti bersagli in movimento eppure eravamo uomini, non carne da macello.
Neanche il tempo di riprenderci e ricominciò la marcia questa volta verso il fiume Dnieper. Le condizioni di noi soldati peggioravano sempre di più: l’armamento era scarso, l’equipaggiamento inadeguato per l’inverno che stava arrivando, il combustibile scarseggiava, pochi i treni in arrivo dall’Italia. Il morale era sempre più basso, ci sentivamo abbandonati dalla Patria, buttati in una guerra che non volevamo senza mezzi, senza cibo, senza risorse e senza prospettive.
Ogni tanto riuscivamo a rifugiarci per la notte in un’isba, la tipica abitazione russa in paglia e fango. La maggior parte delle volte le isbe erano disabitate ma ogni tanto trovavamo delle famiglie che, anche se diffidenti, poi ci davano qualcosa da mangiare. Avevano preso in simpatia noi italiani, mentre odiavano i tedeschi per i loro comportamenti arroganti e, certe volte, scorretti.
E poi arrivò l’inverno, il lungo, infinito, pauroso, crudele inverno russo. Quello che avevo patito tra i monti dell’Albania non era niente a confronto. Si cominciarono a ridurre i turni di guardia perché di più sarebbe stato impossibile resistere. Bisognava mettere i fucili vicino al fuoco per impedire che si ghiacciassero. I nostri scarponi non bastavano per ripararci dal freddo e dovevamo provvedere a fasciarci i piedi con degli stracci tenuti insieme da filo di ferro. Le nostre barbe erano bianche e ghiacciate, radersi era un problema. La nostra “sbobba” era scadente, una brodaglia schifosa dove, se eravamo fortunati, galleggiava una patata. Durante l’estate e l’autunno avevamo integrato il nostro scarso vitto con i volatili che uccidevamo per strada, ma ora non si trovava più niente. Tutto era coperto da una spessa coltre di neve. Persino il vino veniva distribuito a colpi di piccone, bisognava romperlo a pezzi e sgelarlo nel gavettino.
Oltretutto dovevamo sempre difenderci dagli attacchi dei cecchini russi, dai raid aerei che ci decimavano e dall’arroganza dei superiori che non disdegnavano di metterci in punizione per cose da niente come la divisa in disordine.
La vigilia di Natale fu tristissima, molti di noi avevano ricevuto un pacco dalla famiglia e riuscimmo a mettere insieme un pasto decente, ma il pensiero della famiglia era opprimente. Rileggevo le poche lettere che mi erano arrivate da casa e mi sentivo solo e lontano. Come se non bastasse, all’alba del 25 dicembre i russi ci attaccarono e in poco tempo ci trovammo accerchiati da forze sovietiche. La situazione era critica, non riuscivamo a destreggiarci tra le continue azioni avversarie che giungevano da tutte le parti. Stavano arrivando i rinforzi tedeschi ma non sapevamo se saremo riusciti a resistere. Il cuore esplodeva nel petto, non c’era il tempo per aver paura, bisognava pensare, agire e difendersi. La battaglia continuò anche nei giorni successivi, eravamo ormai stremati quando vedemmo sorgere l’alba del 30 dicembre. I superiori avevano stabilito di effettuare l’ultimo, decisivo contrattacco. Dovevamo rompere l’accerchiamento altrimenti per noi sarebbe finita. Mi misi in posizione insieme ai miei compagni, guardai il cielo sopra di me e intravidi le stelle che ancora non erano scomparse nel cielo, un ultimo pensiero ai miei amati parenti, un’ultima preghiera e poi mi tuffai nella battaglia.”
Il viaggio del mio prozio si interruppe quel maledetto giorno di fine dicembre del 1941. La speranza dei suoi familiari finì quando videro arrivare quel famigerato telegramma in cui veniva spiegato che il figlio era scomparso in battaglia e non era stato riconosciuto tra i militari morti né tra i prigionieri. Pertanto, passati tre mesi dalla data del combattimento senza aver ricevuto sue notizie e non potendo conoscere il suo destino nonostante le indagini e le ricerche effettuate, ai sensi della Legge di Guerra numero 124 veniva redatto il presente verbale di irreperibilità.
La madre, inconsolabile, mise il lutto e non lo tolse più; il padre da allora non fu più lo stesso. Le sorelle crebbero, si sposarono, ebbero figli ma mantennero sempre la foto del fratello sopra al comodino.
L’amata Rosina, dopo aver pianto a lungo, si sposò col cugino del suo fidanzato. Ebbero una vita felice e lunga, due figli, un negozietto di alimentari.
Questa è la storia del mio prozio ma è anche quella della maggior parte dei 120.000 eroi che parteciparono alla Campagna di Russia durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1967 ricevette la Croce di Guerra, che viene gelosamente custodita dentro a una scatola insieme ai suoi pochi effetti personali. Mi ricordo il dolore negli occhi di mia nonna quando mi indicava il nome di suo fratello sulla lapide del monumento ai caduti del Paese. Non aveva mai dimenticato quel ragazzo partito ventiduenne per la guerra e mai più tornato. La madre visse nella speranza che il figlio, ufficialmente dato per disperso, avesse trovato una brava ragazza in Russia e si fosse stabilito là, magari dopo aver perso la memoria in combattimento. Effettivamente ci furono dei casi in cui ciò avvenne ma sono l’eccezione che conferma la regola. E’ molto più ovvio pensare che il suo corpo non fu mai trovato e che si unì alla fredda terra sovietica, coperto da candida neve che, come una soffice coperta, accompagnò il suo sonno eterno.
One comment:
Bello!
Un triste spaccato della nostra storia narrato in modo diretto e scorrevole.
Uno spunto per trasformare questo racconto in un libro.